Il caos aveva un suo ritmo. Kael lo conosceva bene. Viveva da dodici anni nel ventre di Sol-Rom, e il ritmo del caos era la musica della sua esistenza. C’era il frastuono sordo di un ariete contro i cancelli del distretto senatoriale, seguito dal contrappunto acuto delle grida. C’era il basso continuo del calpestio di migliaia di stivali – i rossi e oro dei lealisti di Re Regis contro i blu e argento improvvisati della ribellione di Oceanus – che faceva tremare i selciati.

Per Kael, rannicchiato dietro una fontana prosciugata in Piazza della Concordia, era anche il ritmo delle opportunità. Un carro di vettovaglie rovesciato, un ufficiale caduto con una borsa piena, un magazzino lasciato sguarnito. La guerra era terribile, ma la fame lo era di più.

Fu allora che li vide. Erano un’assurdità persino per gli standard di quella giornata. Un orco che era una montagna di muscoli verdi, avvolto in un mantello nero bordato di pelliccia consunta, che si appoggiava a un’ascia a doppia lama così grande che sembrava forgiata per abbattere le mura della città, non gli uomini. Accanto a lui, uno gnomo che sfoggiava un fisico da lottatore, con il petto nudo e definito che spiccava sotto un lungo soprabito verde e blu dalle spalle larghe; un pizzetto nero curato ne adornava il mento spigoloso e un bastone di legno intagliato era stretto nella sua mano con studiata noncuranza. E poi, la figura più assurda di tutte: un orsetto di pezza. Alto forse mezzo metro, indossava un’armatura completa di piastre viola scuro, incise con motivi a forma di piuma. Sul petto, un emblema a forma di fenice ardeva di una debole luce arancione. Una cicatrice gli attraversava l’occhio di bottone sinistro, e un piccolo cerotto era goffamente applicato sull’orecchio destro. Nella zampa destra, brandiva una piccola spada che ardeva di fiamme vere.

«Hurk! Fianco sinistro! Tre balestrieri sul tetto del Forno d’Oro!» ordinò lo gnomo, la sua voce profonda e calma, per nulla adatta a un corpo così piccolo. Puntò con il suo bastone, e l’orco – Hurk – grugnì in risposta. Non fu un urlo di rabbia, ma un suono secco, quasi un latrato di approvazione. Si lanciò, non verso i balestrieri, ma contro la parete di un edificio vicino. La sua ascia la colpì con la forza di una catapulta, e una pioggia di mattoni e intonaco investì il vicolo da cui i soldati stavano per emergere.

«Phe Ne, coprimi!» strillò l’orsetto corazzato, la sua voce infantile e metallica che rimbombava debolmente dall’elmo. Si mosse per scattare in un vicolo opposto.

«Negativo, Vis! L’obiettivo primario è la tua protezione!» replicò lo gnomo, Phe Ne, senza nemmeno guardarlo, ma piantando il bastone a terra con un tonfo secco.

Kael li osservava, affascinato. Non erano soldati. Erano una compagnia di fiabe oscure. Mentre strisciava verso un borsello caduto, i suoi occhi continuavano a tornare sull’orsetto guerriero. In mezzo a spade, scudi e magia, cosa diavolo era quella creatura?

Fu in quel momento che la terra tremò. Non fu il tremore di un’esplosione o di una carica di cavalleria. Fu un tremore profondo, tettonico, come se la città stessa stesse per essere sradicata dalle sue fondamenta. Dalla parte del Palazzo Reale, qualcosa si stava sollevando. Qualcosa di immenso.

Era una fortezza. Una fortezza che camminava.

Torri di pietra celestiale e metallo adamantino si ergevano per centinaia di metri, muovendosi su enormi arti meccanici che schiacciavano edifici come fossero gusci d’uovo. Ingranaggi grandi come case ruotavano con un fragore assordante, e da feritoie che sembravano occhi, scaturivano fasci di luce dorata che vaporizzavano interi plotoni di ribelli. Al centro della struttura, una cattedrale dorata pulsava di un potere sacro e terribile.

«Iksander…» mormorò Phe Ne, la sua espressione sicura incrinata per la prima volta. «Il re ha scatenato l’Eikon Fortezza. Le nostre armi sono inutili».

Hurk tornò di corsa, l’ascia macchiata di polvere e sangue. Guardò la fortezza mobile e per la prima volta Kael vide una traccia di dubbio negli occhi dell’orco. «Allora lo abbattiamo».

«La fisica non è d’accordo, mio corpulento amico», disse Phe Ne, la voce tesa. «La sua massa… la sua energia… È come tentare di fermare una valanga con uno stuzzicadenti».

Iksander avanzava, inesorabile. Un bastione della fortezza si trasformò in un cannone, puntando verso la piazza. Kael si sentì gelare. Non c’era via di fuga. L’orsetto di pezza chiamato Vis si fece avanti, piantando le sue piccole zampe corazzate sul selciato. Una follia suicida.

Il fascio di luce partì. Bianco, puro, assoluto. Kael chiuse gli occhi, aspettando l’annientamento.

Ma non accadde nulla. O meglio, accadde qualcosa di impossibile.

Riaprendo gli occhi, vide che la luce si era fermata, a pochi metri da Vis, infrangendosi contro una barriera invisibile che increspava l’aria. Al centro di quell’increspatura, la fenice sul petto dell’orsetto brillava di una luce propria, un bianco-azzurro intenso e calmo.

«Ora, Phe Ne!» tuonò Vis, la sua voce che non era più infantile, ma risuonava di un’autorità antica e corale.

«Ci sto provando!» gridò lo gnomo, stringendo il suo bastone. «La traslazione dell’Eikon Metatron richiede un allineamento preciso! L’interferenza di Iksander è troppo forte!»

L’orsetto di pezza iniziò a svanire, non dissolvendosi, ma dispiegandosi. Le cuciture si allentarono, non per rompersi, ma per rivelare la luce stellare che contenevano. Le placche d’armatura si espansero, il tessuto si trasformò in placche di metallo serafico, incise con formule cosmiche. In un istante accecante, la piccola figura si espanse, si innalzò, divenne una colonna di luce pura.

Quando la vista di Kael tornò, al posto dell’orsetto c’era un essere maestoso, alto sessanta metri. Un angelo androgino con sei enormi ali di luce cristallizzata, il corpo un arazzo vivente di simboli divini e teoremi matematici. In mano teneva un libro le cui pagine cambiavano costantemente, rivelando le leggi stesse della creazione.

Era Metatron, l’Eikon Serafico dell’Ordine.

Iksander, la fortezza ambulante, parve quasi esitare. I suoi cannoni si orientarono verso la nuova minaccia. Metatron non si mosse. Alzò semplicemente una mano.

«Giudizio», risuonò una voce nella mente di Kael – non un suono, ma un concetto puro.

I fasci di luce di Iksander colpirono Metatron, ma non lo danneggiarono. Si scomposero, si diffransero, si dissolsero in matematica pura, le loro energie ricondotte all’ordine primordiale.

Iksander avanzò, un arto meccanico calò con la forza di una montagna. Metatron non lo schivò. Aprì il suo libro. Un singolo raggio di luce, sottile come un filo di ragno, partì da una pagina e colpì il braccio di Iksander. Non ci fu esplosione. Semplicemente, il metallo adamantino e la pietra celestiale si sbagliarono. Dimenticarono come rimanere uniti. Si sbriciolarono in polvere, la loro esistenza contraddetta da un principio superiore.

«Eresia», comunicò Metatron, la sua voce una sinfonia di logica inconfutabile.

La cattedrale al centro di Iksander brillò più intensamente, scatenando la sua arma definitiva: un’onda di pura autorità divina, un potere che esigeva sottomissione.

Metatron rispose con il Giudizio Serafico. Un raggio di luce blu-argentea, non di potere, ma di verità. Non attaccò la fortezza, ma il suo concetto. Colpì il cuore di Iksander, il suo legame con il mondo, e pose una singola, terribile domanda: «Sei giusto?»

Per un istante, Iksander si fermò. Poi, un suono orribile, non di metallo che si spezza, ma di un paradosso che si risolve, iniziò a propagarsi per la sua struttura. I suoi movimenti divennero incerti. Le sue luci tremolarono. Le sue torri iniziarono a crollare, non perché colpite, ma perché la loro stessa esistenza era stata giudicata imperfetta. La grande fortezza, l’Eikon invincibile, si sgretolò su sé stessa, implodendo in una pioggia di polvere e luce morente.

Nella piazza calò un silenzio innaturale. La polvere si depositò lentamente. Metatron, la sua opera compiuta, si rimpicciolì, la sua luce si contrasse, fino a che al suo posto rimase solo l’orsetto corazzato, accasciato sul terreno vetrificato, la spada fiammeggiante ridotta a un nulla.

Kael rimase immobile, il borsello dimenticato. Aveva visto re e ribelli, eroi e mostri. Ma quel giorno, in Piazza della Concordia, aveva visto qualcosa di più. Aveva visto una legge più antica del metallo e più potente dei re. Aveva visto un orsetto di pezza giudicare una fortezza, e vincere.

La guerra non era finita, ma per Kael, il mondo non sarebbe mai più stato lo stesso. Non cercava più solo cibo. Cercava risposte.